Mala gestio impropria e necessità di collaborazione del danneggiato

CORTE DI CASSAZIONE – TERZA SEZIONE – ORDINANZA N. 12895/2020

Con l’ordinanza in esame la Suprema Corte ha affrontato il tema della c.d. mala gestio impropria o, per meglio, dire, della responsabilità da colpevole ritardo, chiarendo le circostanze ostative alla mora della Compagnia assicurativa.

Preliminarmente occorre chiarire che la c.d. mala gestio impropria si differenzia dalla mala gestio propria in quanto, nel primo caso, l’assicuratore si rende inadempiente nei confronti del terzo danneggiato, mentre nel secondo l’obbligazione disattesa è quella scaturente dal contratto assicurativo, prevista cioè a favore dell’assicurato.

Il caso oggetto del giudizio della Corte di Cassazione rientra nella prima tipologia e si verifica allorquando l’assicuratore tiene un comportamento ingiustificatamente dilatorio, tale da non rispettare i termini di cui all’art. 145 D. Lgs. 209/2005, malgrado fosse stato messo nelle condizioni di determinarsi in ordine all’an e al quantum debeatur.

Nell’ordinanza in commento la Suprema Corte si è soffermata sull’onere della parte danneggiata che invoca il risarcimento ultra massimale, di mettersi a disposizione dell’assicuratore allo scopo di permettergli di effettuare la dovuta istruttoria.

Nel caso di specie, il danneggiato non solo non ha fornito prova dell’inutile decorso dello spazio deliberandi, ma con la propria condotta ha di fatto impedito alla compagnia di effettuare alcuna istruttoria, atteso che, nei giorni successivi al sinistro, si è trasferito all’estero, negando pertanto la possibilità per l’assicuratore di sottoporlo a perizia medico legale e, quindi, di determinarsi sul quantum.

Affinché si verifichi la mora della Compagnia assicurativa, è necessario quindi un comportamento collaborativo, o quantomeno non ostruzionistico, da parte del danneggiato.

La Suprema Corte dunque, preso atto che il decorso del termine di cui all’art. 145 C.d.A. è avvenuto per fatto imputabile al danneggiato e che tale valutazione, ad ogni modo, impone un accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, ha rigettato il ricorso.

avv. Riccardo d’Amico

La “mannaia” della mancata attestazione di conformità nel ricorso per Cassazione

SENTENZA CORTE DI CASSAZIONE – TERZA SEZIONE CIVILE

Con la sentenza n. 11278/2020 la Corte di Cassazione affronta le problematiche connesse all’asseverazione della conformità all’originale della copia analogica della relata di notifica a mezzo pec della sentenza impugnata e della c.d. prova di resistenza, giungendo a dichiarare improcedibile il ricorso.

Ricordiamo preliminarmente che la c.d. prova di resistenza deve essere fornita ogni qual volta la notifica del ricorso è successiva al termine di 60 giorni dalla data della pubblicazione della sentenza impugnata; al riguardo è stato infatti affermato che “pur in difetto di produzione di copia autentica della sentenza impugnata e della relata di notificazione della medesima (adempimento prescritto dall’art. 369, II° comma, numero 2, cpc), il ricorso per cassazione deve egualmente ritenersi procedibile ove risulti, dallo stesso, che la sua notificazione si è perfezionata, dal lato del ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza, poiché il collegamento tra la data di pubblicazione della sentenza (indicata nel ricorso) e quella della notificazione del ricorso (emergente dalla relata di notificazione dello stesso) assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all’art. 325, II° comma, cpc” (Cass.Civ. 17066/2013).

Nel caso oggetto della decisione in commento, il ricorrente aveva depositato, all’atto dell’iscrizione a ruolo del procedimento, la copia analogica della decisione impugnata, estratta telematicamente e notificata a mezzo PEC a cura dello scrivente Studio quale difensore in grado d’appello di Unipolsai spa, priva di attestazione di conformità del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter delle relate di notifica, non avendo fornito dunque prova della data in cui tale sentenza gli era stata notificata.

Né il ricorrente aveva provveduto a depositare fino all’udienza di discussione o all’adunanza in Camera di Consiglio, la copia analogica con attestazione di conformità, ai sensi dei commi 1-bis e 1-ter dell’art. 9 della legge n. 53/1994, del messaggio di posta elettronica certificata ricevuto, nonché della relazione di notifica e del provvedimento impugnato allegati al messaggio, al fine di sanare tale mancanza.

Unipolsai spa è rimasta solo intimata, mentre il Comune controricorrente anch’esso non ha sanato tale mancanza.

La Suprema Corte dunque, dato atto che il ricorrente non risultava aver notificato il ricorso entro 60 giorni dal deposito della sentenza impugnata, non fornendo NEMMENO la c.d. prova di resistenza, ha concluso dichiarando il ricorso stesso improcedibile.

avv. Camilla Mastrangelo

La tabella di Milano è criterio guida e non norma di diritto

SENTENZA CORTE DI CASSAZIONE – TERZA SEZIONE CIVILE

Nella sentenza in commento, il Supremo Collegio ha affermato che la Tabella di Milano non ha valore di legge ma costituisce un criterio guida, che integra il concetto di equità, finalizzato a circoscrivere la discrezionalità dell’organo giudicante.

Le Tabelle milanesi costituiscono sicuramente un utile parametro di verifica della legittimità dell’attività di giudizio, in quanto consentono – avuto riguardo alle caratteristiche di omogeneità ed uniformità di trattamento di situazioni tipo che i criteri tabellari esprimono – di valutare detta attività sotto il profilo della congruità e rispondenza della liquidazione equitativa al principio generale per cui al soggetto leso deve attribuirsi l’integrale ristoro del danno, assumendo a riferimento indici standard.

La portata della decisione è notevole, visto che non dovrebbero più essere ammessi ricorsi in Cassazione per violazione di legge ex art. 360 cpc, per il sol fatto che il Giudice di merito ha applicato una tabella diversa da quella milanese, come visto fare in moltissimi ricorsi in questi ultimi anni.

Quindi secondo la Cassazione, è lo scorretto esercizio del potere discrezionale che può essere censurato per vizio di violazione di legge ex art. 360 cpc, e non anche la diversa modulazione dei valori delle Tabelle di Milano, laddove il Giudice si sia mantenuto nel “range” tra misura minima e massima tabellare, e “la mancata applicazione delle Tabelle milanesi deve, comunque, ritenersi irrilevante laddove la valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. del danno non patrimoniale – pure se operata con riferimento a Tabelle diverse da quelle elaborate dal Tribunale di Milano – venga a riconoscere al danneggiato un importo sostanzialmente corrispondente a quello risultante da queste ultime, restando quindi irrilevante la mancanza di una loro diretta e formale applicazione”.

avv. Camilla Mastrangelo

Domande ed eccezioni rimaste assorbite in primo grado – Riproposizione in appello ex art. 346 c.p.c.

SENTENZA CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE

Pubblichiamo la pronuncia con cui la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, si è pronunciata su una questione processuale da noi sollevata.

La questione aveva avuto origine dalla nostra eccezione di tardività della domanda di garanzia formulata dagli assicurati in appello, i quali non solo non l’avevano formulata mediante appello incidentale, ma non si erano nemmeno costituiti nei 20 giorni antecedenti l’udienza di prima comparizione.

La Corte d’Appello di Venezia, in accoglimento della nostra eccezione di tardività della domanda di garanzia, l’aveva dichiarata inammissibile.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte sono intervenute proprio su tale questione: se è pacifico che la parte rimasta vittoriosa nel merito in primo grado, non è tenuta a riproporre con appello incidentale le domande e le eccezioni già proposte e respinte o dichiarate assorbite dalla decisione del primo giudice, difettando il presupposto della soccombenza, avendo solo l’onere di provocare il riesame di tali domande ed eccezioni mediante loro mera riproposizione ex art. 346 cpc, la questione del momento in cui tali domande devono essere riproposte in appello per essere considerate ammissibili, non era chiaro.

Il Supremo Collegio è dunque intervenuto sull’argomento, affermando il  seguente principio di diritto: “i diritto che risolve il dubbio interpretativo appena ricordato: nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla l. n. 353/1990 e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione – che costituisce pur sempre una revisio prioris istantiae – nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale: art. 343 cpc), a riproporre ai sensi dell’art. 346 cpc le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel thema probandum e nel thema decidendum del giudizio di primo grado”.

Dunque secondo gli Ermellini, in mancanza di basi sistematiche che impongano di assimilare l’attività di riproposizione a quella di formulazione ex novo di domande ed eccezioni in appello (come previsto dall’art. 345, commi 1 e 2, cpc), non può operare il principio di preclusione, elaborato per selezionare le facoltà processuali esercitabili nella progressione del procedimento, per cui la visuale elettiva dell’art. 346 cpc sarebbe deviata in un ambito diverso da quello suo proprio, che va correttamente impostata sulla base della dicotomia difesa/eccezione ed altrettanto esattamente risolta nel senso della mera difesa.

Diversamente si finirebbe con l’attrarre nella disciplina dell’appello incidentale anche la riproposizione di domande condizionate e/o di eccezioni non altrimenti esaminate dal primo giudice.

Nei confronti dell’amministrazione dell’ente datore di lavoro, la responsabilità può essere solo extracontrattuale e mai contrattuale ex art. 2087 c.c.. Conseguenze sotto il profilo dell’onere della prova.

Sentenza Tribunale di Venezia del 9.8.2018

Nella sentenza in commento, resa dal Tribunale di Venezia in data 9.8.2018, in relazione alla richiesta di risarcimento del danno formulata dai congiunti di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico, a seguito dell’inalazione di polveri di amianto a cui sarebbe stato esposto durante l’attività lavorativa, che gli attori hanno formulato nei confronti degli soli ex amministratori della società datrice di lavoro, per non aver “impedito l’uso dell’amianto da parte della società da loro diretta…trattandosi di lesioni al diritto all’incolumità personale, come il datore di lavoro che risponde a titolo sia contrattuale che aquiliano, rispondono a titolo aquiliano gli amministratori e i direttori generali”, il Giudice ha rigettato la domanda, affermando, sulla scorta di quanto statuito dal Supremo Collegio nella sentenza n.6125/94, che nei confronti dell’amministrazione dell’ente datore di lavoro, la responsabilità può essere solo extracontrattuale e dunque derivare dalla violazione del precetto del neminem laedere sancito dall’art. 2043 c.c., e giammai contrattuale ex art. 2087 c.c..

Partendo da tale postulato, il Tribunale ha evidenziato che gli attori non hanno assolto l’onere probatorio a loro carico, sottolineando che il testimoni hanno dichiarato che il lavoratore era sempre stato impiegato presso lo stabilimento di Fusina, escludendo che avesse mai lavorato a Marghera, come invece affermato dagli attori, ed evidenziando altresì che i testimoni escussi hanno sostanzialmente confermato i capitoli di prova formulati dai convenuti, relativi al fatto che il lavoratore non era mai stato esposto all’amianto.

Dice il Tribunale: “Dall’escussione dei testi è, pertanto, emerso che il (lavoratore ndr) si occupava dello svuotamento delle siviere e del successivo versamento dell’alluminio liquido all’interno dei forni presenti nel reparto fonderia e circa 2-3 volte al mese provvedeva alla pulitura di un forno fisso davanti alla quale era posizionata una lastra di amianto di circa un metro quadro che veniva rimossa e frantumata con un badile. E’ emerso che l’uso dell’amianto presso il reparto di fonderia dello stabilimento di Fusina, luogo in cui è stato accertato svolgere l’attività lavorativa il (lavoratore ndr), era stato eliminato dal 1980 o tra il 1980 e il 1983”, concludendo che non vi è prova che nel periodo in cui il convenuto da noi difeso aveva rivestito l’incarico di direttore generale, l’amianto fosse ancora utilizzato nelle attività cui il lavoratore era adibito presso lo stabilimento di Fusina.

Sulla base di tali attenta ed approfondita disamina di merito della controversia, la domanda è stata rigettata stante il mancato assolvimento dell’onere della prova a carico degli attori.

Un punto fermo sull’annosa questione relativa alla validità delle clausole c.d. claims made. Commento alla sentenza Cass.Civ., Sez.Unite 24.9.2018, n. 22437.

sentenza Cass.Civ., Sez.Unite 24.9.2018, n. 22437

Il Supremo Collegio, partendo dalla considerazione che alcuni recenti provvedimenti legislativi hanno riconosciuto l’esistenza e l’efficacia delle clausole c.d. claims made (art. 11 Legge n. 24 del 2017, c.d. legge Gelli in materia di obbligo di assicurazione delle strutture sanitarie per la responsabilità civile verso terzi; nonché art. 3, comma 5, del D.L. 138/2011 c.d. legge professionale che prevede l’obbligo per l’esercente una libera professione di stipulare “idonea assicurazione” per un periodo di ultrattività della copertura assicurativa), ha ritenuto che il modello claims made sia da ricondurre nell’alveo della tipicità legale e pertanto non necessiti di alcun vaglio di meritevolezza.

La Suprema Corte afferma infatti, in modo assolutamente chiaro, che la claims made consiste in una delimitazione dell’oggetto del contratto, con conseguente esclusione della vessatorietà della clausola, ai sensi dell’art. 1341 c.c., “correlandosi l’insorgenza dell’indennizzo, e specularmente dell’obbligo di manleva, alla combinata ricorrenza della condotta del danneggiante e della richiesta del danneggiato”, concludendo che tale previsione contrattuale rientri nell’ambito delle deroghe convenzionali ammesse dall’art. 1932 c.c..

I Giudici di legittimità hanno poi posto l’attenzione sul fatto che la valutazione della liceità delle claims made, deve essere focalizzata principalmente sulla parte prodromica alla conclusione del contratto (c.d. responsabilità precontrattuale da mancata o insufficiente informazione circa le clausole contrattuali), nonché sull’effettiva adeguatezza del contratto agli interessi in concreto avuti di mira dai contraenti.

In particolare, gli Ermellini ritengono si debba indagare se il contratto possa soddisfare gli interessi concretamente perseguiti dalle parti, e ciò deve avvenire attraverso la lente della c.d. buonafede contrattuale, nonché attraverso la sussistenza di un equilibrio tra rischio assicurato e premio corrisposto.

Il rimedio in caso di mancato rispetto di tale equilibrio deve essere ricercato nell’art. 1419, II° comma c.c., relativo alla nullità parziale delle clausole contrattuali.

Significativo risulta, infine, l’inciso della Corte relativo all’applicabilità del rimedio della nullità parziale rispetto ai contratti stipulati dai professionisti, antecedentemente all’entrata in vigore delle norme in materia di obbligatorietà dell’assicurazione della responsabilità civile professionale, laddove questi non prevedano l’ultrattività (anteriore o postuma) della garanzia.

La sentenza in oggetto, peraltro ben motivata, si spera ponga finalmente un punto fermo alle continue oscillazioni della Giurisprudenza in materia di meritevolezza delle clausole claims made.

I profili relativi alla responsabilità precontrattuale e all’adeguatezza concreta del contratto, oltre a risultare di difficile riscontro probatorio, è verosimile verranno ritenuti marginali dai Tribunali di merito, sempre poco inclini ad approfondire tali themi decidendi.

Anche i beni gravati da ipoteca sono sequestrabili

La Corte di Cassazione ha affermato un importante principio: l’esistenza di un’ipoteca, gravante sul bene a tutela dei diritti di terzi, non ostacola il sequestro per equivalente. I giudici di legittimità hanno rigettato i ricorsi di alcuni imprenditori coinvolti in un progetto criminoso e accusati di numerosi reati di frode fiscale.

Non vige l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento in caso di informativa antimafia sfavorevole

A seguito di informativa prefettizia tipica sfavorevole e in presenza di contratto già stipulato, il margine di valutazione discrezionale in capo alla stazione appaltante riguarda unicamente la ponderazione delle ragioni di ordine pubblico che, in via eccezionale, suggeriscono la conservazione del rapporto. Solo in questo caso la motivazione deve essere ampia e dettagliata al contrario quando la P.A. intenda aderire alla portata inibitoria dell’informativa, a giustificare il provvedimento di revoca, è sufficiente il mero rinvio alla misura interdittiva.